Dai vantaggi alle spesso ignorate criticità.
La recente Direttiva Europea SUP (Single Use Plastics) che impone il divieto di commercializzazione dei manufatti monouso in plastica per la somministrazione di cibi e bevande (piatti, bicchieri, posate, cannucce, etc.) e che dovrà essere recepita dai Paesi membri entro il 2021, provocherà inevitabilmente significativi cambiamenti nelle abitudini e nei consumi dei cittadini europei.
(Per maggiori informazioni sulle conseguenze pratiche della nuova direttiva europea, si legga il post “Plastic alert” ).
La plastica, come è noto, è prodotta da derivati del petrolio e sarebbe più preciso parlare di “materie plastiche” in quanto composte da polimeri sintetizzati artificialmente, ciascuno con proprie caratteristiche, proprietà e campi di applicazione. Questi elementi rendono tali materiali non biodegradabili in quanto la loro struttura è artificiale, non disponibile in natura. Quindi le loro caratteristiche che per due secoli sono state il punto di forza, durata e resistenza, oggi invece sono considerate sfavorevolmente.
Tra le possibili ipotesi di sostituzione dei manufatti monouso in plastica tradizionale è stata avanzata quella dell’impiego di materiali compostabili quali carta, legno e plastiche compostabili, che dovrebbero trovare il loro fine-vita nella filiera del recupero dei rifiuti organici, previa raccolta differenziata insieme agli scarti da cucina.
Per carta e legno è abbastanza semplice ma diventa più complesso quando si parla delle “plastiche compostabili” poiché c’è una certa confusione già a partire dai termini e spesso si credono sinonimi parole come bioplastica, plastica biodegradabile, plastica compostabile. Innanzitutto diciamo che con il termine bioplastiche si fa riferimento ad un tipo di plastica che deriva, perlomeno in parte, da biomasse (biobased – ovvero a base biologica) oppure è biodegradabile, o ancora, possiede entrambe le caratteristiche. Ciò significa che biobased non è sinonimo di biodegradabile. Perciò, alcuni materiali biobased sono biodegradabili (come il PLA - acido polilattico), altri invece no (come il BIO-PET).
Quindi possiamo suddividere le bioplastiche in tre categorie:
- bioplastiche non biodegradabili a base interamente o parzialmente bio (PE, PET, PA, PTT a base bio) ottenute da canna da zucchero, melassa e oli vegetali
- bioplastiche biodegradabili a base bio (PLA, PHA, PBS e Starch blends) ottenute da amido di mais, barbabietola da zucchero, canna da zucchero, tapioca, biomasse
- bioplastiche basate su risorse fossili e biodegradabili (PBAT)
Non rientrano nelle bioplastiche i materiali plastici non biodegradabili basati su risorse fossili (PE, PP e PET non a base bio): si parla in questo caso di plastiche tradizionali.
Chiariamo ora un po’ meglio il concetto di biodegradabilità: un materiale è biodegradabile se può essere suddiviso in monomeri e metabolizzato attraverso l’azione di microrganismi naturali, come batteri e funghi. La biodegradazione è il processo biochimico con cui il polimero viene convertito in sostanze come acqua, anidride carbonica e bio massa. I tempi di biodegradabilità possono variare da pochi giorni fino a 4-5 anni e ciò dipende in gran parte dalla composizione e spessore del materiale, nonché dalle condizioni ambientali a cui è esposto. Ciò significa che una plastica classificata come biodegradabile non necessariamente può essere adatta per il compostaggio, poiché una plastica compostabile è, per definizione della American Society for Testing & Materials, un materiale “in grado di subire una decomposizione biologica in un luogo adibito al compostaggio, scindendosi in anidride carbonica, acqua, composti inorganici e biomassa, ad una velocità coerente con altri materiali compostabili come la cellulosa, e non lascia residui tossici”. Ovvero, un materiale biodegradabile deve, per definirsi tale secondo la normativa europea (standard UNI EN 13432), degradarsi per almeno il 90% entro 6 mesi, mentre uno compostabile deve ottenere lo stesso risultato entro 3 mesi. Il materiale compostabile può essere conferito nel compost, mentre quello biodegradabile no.
Ora che conosciamo meglio i concetti di bioplasticità e biodegradabilità (e se ci fossero altri dubbi o curiosità riguardo la plastica e i suoi utilizzi, ti invito a controllare il nostro blog) ci domandiamo: può la bioplastica davvero aiutare a risolvere il problema dell’inquinamento del pianeta?
Scopri la risposta nel prossimo aricolo
credit to:
www.polimerica.it - 6/9/19
www.italiachecambia.it - 29/5/19
www.anteritalia.org - 28/2/19
magazine.impactscool.com - 30/1/2019
www.nonsprecare.it - 23/8/19
www.ecodallecitta.it - 8/2/19
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